Il decreto lavoro non va. Prima il contratto unico

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da l’Unità del 26/03/2014
di Andrea Carugati

 

Con i sindacati bisogna confrontarsi, il dialogo sociale è un caposaldo del programma del PSE.
Sui prepensionamenti serve chiarezza: si fanno solo nel pubblico?

 

La velocità del governo sulle riforme rischia di comprimere eccessivamente la concertazione con le parti sociali?
“Il tema della velocità nell’azione di governo risponde a diverse esigenze, tra queste la principale sono le attese e i problemi del Paese”, risponde Guglielmo Epifani, deputato PD, presidente dela Commissione Attività Produttive della Camera ed ex segretario del partito e della Cgil. “Il problema dunque non è la velocità ma cosa si sacrifica sul terreno della costruzione del consenso democratico.”

Ritiene che il governo Renzia stia sacrificando troppo i sindacati?
“Innanzi tutto vorrei capire bene, quando sento le critiche, a cosa ci si riferisce. Le ultime vere forme di concertazione sono finite con il primo governo Prodi e l’ingresso nella moneta unica. Da allora i governi di centrodestra hanno fatto tutto il contrario, Berlusconi non convocava mai la Cgil e neppure i governi tecnici hanno mai avuto un’idea forte di concertazione. Credo che il governa debba mantenere un profilo di dialogo, e in fondo è quello che si sta facendo con Anci e Regioni. Lo stesso andrebbe fatto con chi rappresenta lavoro e impresa. Poi è ovvio che il governo ha la responsabilità della scelta finale. Del resto, nel programma del PSE il dialogo sociale è uno dei capisaldi. Il presidente Obama ha detto che senza i sindacati l’America sarebbe più povera e anche meno democratica. Lo stesso vale per l’Italia. Se l’Italia ha superato la crisi senza gravi tensioni sociali, che pure ci sono state in Spagna, questo si deve anche alla responsabilità del sindacato.”

Ritiene che il governo tema di trovare nei sindacati un freno più che uno stimolo alle riforme?
“Lo si vedrà sulle singole questioni. Quando c’è un intervento di riduzione fiscale per i lavoratori a reddito più basso non manca il sostegno dei sindacati. Anche sulla riforma della Pubblica Amministrazione io penso che ci sarà una disponibilità. Possono esserci anche valutazioni diverse  su singoli temi, ma questa è la fisiologia di un dialogo. Non ha senso parlare di veti che nessuno vuole mettere”.

Nel merito lei come valuta il decreto del governo sui contratti a tempo determinato e apprendistato? C’è il rischio che crei maggiore precarietà?
“I dati ci dicono che il 68% degli avviamenti al lavoro ha una caratteristica precaria e che la riforma Fornero non ha funzionato. L’obiezione che muovo al decreto è che per affrontare in modo logico una riforma bisognerebbe partire dal Jobs Act, e cioè da un contratto di inserimento valido per tutti, in cui i lavoratori dopo un periodo di prova allungata hanno pienezza di diritti. Questo è uno strumento in grado di abbattere la precarietà. Se si parte solo contratto a tempo determinato, il risultato è creare condizioni vantaggiose per le imprese e negative per i lavoratori. Non si è ancora visto un tempo determinato senza causali, tre anni è un periodo lungo e otto proroghe sono eccessive. Se il decreto si approvasse così com’è, dunque, finirebbe per essere preclusa la convenienza a fare la riforma del contratto unico di inserimento. E quel 68% di precari potrebbe addirittura aumentare. Per questo bisogna invertire l’ordine dei provvedimenti”.

Perché non si è seguita questa strada che pure Renzi aveva indicato?
“Non riesco a comprenderlo. In fondo, del contratto unico di inserimento si parla da anni e trova un larghissimo consenso nel Paese”.

Cosa pensa della proposta del ministro Madia di prepensionamenti nella PA?
“Ogni anno si sa quanti lavoratori pubblici vanno in pensione. Se si vuole fare un’operazione utile, bisogna programmare un numero di assunzioni proporzionale alle uscite, in particolare nella scuola e nella sanità. Quanto ai prepensionamenti serve chiarezza: si fanno solo nel pubblico e non nel privato? Bisognerebbe tornare a ragionare sulla flessibilità in uscita. Perché in un mondo che si vuole flessibile l’unica cosa rigidissima deve essere l’innalzamento per tutti dell’età pensionabile?”.

Vuole rivedere la riforma Fornero per rendere meno rigida l’età pensionabile?
“Certamente. Nel pubblico può servire anche a rinnovare, dando spazio a molti più giovani. Credo però che serva un ragionamento più ampio su questo tema. Se lo si fa nel pubblico si riapre anche il tema di alcuni settori del privato dove è assai duro lavorare fino a 67 anni”.

La manovra economica di Renzi la convince?
“Si, e non capisco le obiezioni di Confindustria. In poco più di un anno, se tutta va in porto, il mondo del lavoro e dell’impresa potranno contare su sgravi per 17 miliardi, compresi anche i 3 miliardi per il cuneo decisi dal governo Letta. Unitamente al rimborso dei crediti delle imprese con la PA, danno uno stimolo forte alla domanda”.

Sul fiscal compact ritiene che il premier faccia bene a chiedere delle modifiche?
“Renzi ha posto con forza il problema in Europa, ha seminato. Dopo le elezioni europee, con la nuova Commissione, sarà il momento di raccogliere i frutti. Non è un problema solo italiano. Se non c’è più attenzione alla crescita e più flessibilità sul fiscal compact, il meccanismo europeo rischia di incepparsi. Dalle urne arriverà un rafforzamento delle spinte antieuropee. Dopo l’Europa dovrà necessariamente cambiare per poter andare avanti”.

Insieme ad altri lei ha sollevato il tema di come gestire il PD mentre il leader è a palazzo Chigi.
“Il partito in effetti è rimasto un po’ sguarnito. Dobbiamo discutere in modo approfondito di quale partito vogliamo. Credo che serva un PD che da una parte sostenga il governo e dall’altra mantenga un’autonomia di proposta e una forte presenza nella società. Bisogna mettere un po’ di ordine nel tesseramento, ritrovare un collegamento forte con i circoli, recuperare capacità di elaborazione e prepararci a una importante tornata amministrativa. Se saremo tutti d’accordo sul profilo del partito, credo che sia necessaria una gestione unitaria. Perché la sfida  che abbiamo davanti come governo e come PD richiede che tutti si lavori nella stessa direzione. Senza cancellare le differenze. E si potrebbe anche mettere mano insieme alle parti dello statuto che non funzionano”.

A cosa si riferisce in particolare?
“Penso ad esempio all’uso delle primarie, che oggi si fanno a macchia di leopardo. Questa decisione non può essere lasciata al caso, serve una registrata. E’ un tema decisivo dell’identità del PD”.