No al Partito del capo

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Intervista di Enrico Marro al Corriere della Sera del 22 febbraio 2017

Guglielmo Epifani è fuori dal Pd dopo esserne stato anche segretario. Perché?
«È stata una scelta sofferta ma convinta, perché il Pd ha cambiato pelle. Nella vita interna, con un’accentuazione del “partito del capo” invece del “partito comunità”. Ora, non è che sia contro il leader forte, ma questi lo è quando sente un limite, cioè di essere il segretario di tutti. E Renzi non lo è stato. Questa deriva ha fatto sì che il Pd perdesse consenso e radicamento nei settori sociali che dovrebbero essere il nostro riferimento: i giovani, i lavoratori, la scuola, l’ambientalismo».

Ma la battaglia non potevate farla dall’interno?
«No, perché non si vuole fare un esame degli errori né correggerli. Noi abbiamo fatto proposte ragionevoli: che il Pd si impegnasse per portare a termine la legislatura; che si svolgesse una conferenza programmatica vera. Invece hanno scelto un congresso anticipato, che assomiglia a un plebiscito su Renzi».

Impossibile un vostro ripensamento?
«Non vedo le condizioni. In più avverto rischio che, se non ci muoviamo, con quei mondi di riferimento non recuperiamo più un rapporto positivo, perché una parte già vota per i 5 Stelle mentre molti si sono rifugiati nell’astensione. Se non ricostruiamo un rapporto, consegniamo il nostro mondo alla destra e ai populisti».

Che conseguenza avrà la scissione sul governo?
«Quello che nasce sosterrà il governo Gentiloni, pur chiedendogli di correggere il tiro sulle questioni sociali. E poi, sia chiaro, noi non vogliamo avere il Pd come avversario. Il nostro più che un addio è un arrivederci. Noi lanciamo una sfida: ricostruire un punto di riferimento per quei mondi sociali che abbiamo perso. Ridar vita cioè a quel soggetto che si era immaginato dovesse essere il Pd. Una sfida in avanti, quindi. Non pensiamo a una ridotta identitaria».

Ma cos’è «quello che nascerà»?
«Per ora costituiamo i gruppi parlamentari. Poi decideremo democraticamente se andare verso una forma partito, un movimento, una rete, un contenitore aperto».

Se non avrete il Pd come avversario, ne sarete alleati, col rischio di fare come Rifondazione di Bertinotti: la spina nel fianco che fece cadere il governo Prodi.
«Ma no, quello che vogliamo fare è esattamente il contrario. Abbiamo un’ambizione alta. Non dico di essere i federatori di tutta la sinistra, ma di ricostruire dal basso il rapporto col mondo della sinistra. Oggi siamo al paradosso che Berlusconi studia misure contro la povertà. Dobbiamo muoverci, o sarà tardi».

Lei nasce socialista. Che effetto le fa ritrovarsi con i vecchi pci?
«I socialisti-riformisti hanno sempre guardato ai giovani, ai lavoratori, alla scuola, all’ambientalismo alle periferie. Questo è il mio mondo. Oggi c’è bisogno di maggiore riformismo e radicalità. È la stessa cosa su cui punta in Germania il socialdemocratico Schulz».

Antonio Polito sul Corriere ha scritto che il Pd era un’utopia. È d’accordo?
«Non so se era un’utopia. Il Pd ha governato. Certo, resto dell’idea che le modalità di costituzione del partito e molti aspetti dello statuto fossero sbagliati. Sul congresso, per esempio, le regole della Cgil sono più partecipative e garantiste verso le minoranze».

Che rapporti avrete con la Cgil di cui è stato segretario?
«Di grande rispetto, verso tutto il sindacato. È un pezzo del mondo di cui parlavo».

Che dice di Emiliano che ci ha ripensato e resta nel Pd?
«Avrà le sue ragioni, che rispetto. Basta però con le giravolte».

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